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I giorni della merla “I dé dè la Merla”.

I giorni della merla , che tra le leggende bresciane in dialetto si dice: “I dé dè la Merla”.

I giorni della merla è una leggenda che ho ritrovato in un edizione delle ormai scomparse “Pichole historie de la gleba de Bresa”.

Ho potuto rileggere, da una dilavata pagina, corrosa dal tempo e dall’incuria, “la vera storia de la merla bianca e di tutti li merli che seguirono”.

Un antica storia o leggenda che ora mi accingo a rinarrare.

I giorni della merla “I dé dè la Merla”.

In tempi assai lontani, ma mai dimenticati, dunque, la merla, dal
candido piumaggio, volava felice negli aperti spazi del cielo.

Orgogliosa d’essere l’unica creatura alata degna di portare così in alto il candore delle piume avute come segno di distinzione dal creatore.

Nessuna invidia da parte degli altri uccelli; nessun moto di gelosia nei suoi riguardi da parte di chicchessia.

Ciascun essere alato si mostrava soddisfatto della propria livrea:

i pappagalli dei loro colori smaglianti, i pavoni della loro ruota lussureggiante, i passeracei dei loro mantelli variegati, i rapaci delle loro penne variamente colorate.

Come tutti gli altri animali che ebbero il privilegio di sopravvivere grazie al confortevole rifugio offerto loro dal biblico Noè per scamparli al diluvio universale, anche la merla doveva la vita al provvido ricovero.

Così, nel cammino dei secoli, continuò a vivere secondo il costume originale, felice di vestire il candore delle nevi eterne.

Venne però il suo giorno sfortunato.

Fu udita, per caso, dall’Inverno tessere le lodi:

Primavera, stagione propizia ai voli liberi e agli amori;

Estate, stagione generosa di semi e di frutta, ghiottamente ambiti dall’appetito vorace dei volatili;

Autunno , favorevole alle ultime tiepidezze dell’anno che volge al tramonto.

Invano l’Inverno, sospettoso e geloso, attese un apprezzamento nei suoi confronti.

Gli capitò invece di udire la merla spregiare i suoi rigori, maledire i suoi terribili freddi, aborrire le sue gelate.

Non appena l’ebbe udita ripetere: «L’Inverno è il nemico giurato dei poveri uccelli indifesi…»

la redarguì dicendo: «Ah, merla insolente! Tu dunque vai sparlando di
me!».

«Non intendo offenderti e guai a me se ho mai pensato di recarti offesa!

Soltanto osservavo che non sei responsabile dei tuoi eccessivi rigori…» tentò di difendersi la merla.

«Non penserai di cavartela così a buon mercato» replicò con fiero cipiglio l’Inverno, risentito.

«Non ha fatto altro che sbugiardarmi dovunque ti portino le tue ali.

Godo cattiva fama presso tutti gli uccelli a causa tua…Bada a te!» la minacciò.

Invano la povera merla supplicò e implorò clemenza dall’inviperito Inverno.

A nulla valsero neppure i buoni uffici interposti dagli altri animali accorsi in aiuto della merla.

L’Inverno fu irremovibile e ben presto mise in atto le sue minacciose promesse, tanto più che qualcuno gli aveva soffiato nell’orecchio che la merla andava dicendo in giro, beffandosi di lui:

«Che faccia pure! Tanto io non lo temo…».

Iniziarono così i giorni della merla “I dé dè la Merla”.

Cominciò, dunque, a sobillare le tramontane, sostenute dai gelidi venti del Nord, forieri di incontenibili burrasche; poi addensò cumuli di nuvolaglia scura, gravida di tempeste; infine stese mantelli impenetrabili e ghiacciati di brina; e insieme avvolse la terra di fittissime coltri di nebbia.

Gli uccelli corsero all’impazzata a cercare un rifugio per sfuggire alla minaccia di morte violenta.

La povera merla tentò prima di resistere all’urto dell’Inverno scatenato, ma non ebbe la forza di andare oltre: se voleva salva la vita, doveva cedere, arrendersi alla prepotenza dell’avversario.

La fortuna le venne incontro, aprendole davanti per caso una buia galleria che scendeva nelle viscere della terra seguendo i lavori di scavo di una miniera di carbone.

A poco a poco, la merla, abituandosi all’oscurità e all’umidore, accettò la nuova dimora, in attesa che si calmassero i rigori dell’Inverno e tornassero le condizioni di vita normali.

Rimase, dunque, laggiù a lungo. Forse troppo.

Forse non ebbe modo di badare al come e al perché.

Sta di fatto che, una volta che le fu possibile uscire “a rivedere il sole e l’altre stelle”, nessuno più dei suoi simili la riconobbe per la candida merla che per l’addietro avevano conosciuto.

Era talmente cambiata che per poco gli altri uccelli la scambiarono per un corvo o per una cornacchia…

Specchiandosi in una gran pozza d’acqua piovana, la merla finalmente s’avvide d’aver mutato colore; non più bianca come la neve, ma nera come il carbone.

Già, come il carbone della miniera che le aveva dato ricetto nel periodo dell’assedio invernale.

Il carbone che l’aveva salvata, ora le lasciava per sempre la sua impronta.

Provò a ripulirsi, a bagnarsi, a tuffarsi in acqua per togliersi di dosso il nero che non le donava…rispetto al bianco che l’adornava.

Niente da fare. Nera era e nera doveva rimanere.

Non se la prese, invece, contrariamente a quel che pensava l’Inverno, pago della sua vendetta.

In cambio della vita, la merla si tenne le sue penne nere e, vantandosi in pubblico di aver guadagnato nel cambio, chiese e ottenne che anche i suoi discendenti, a perenne ricordo della riconoscenza dovuta al generoso carbone, portassero una livrèa nera, lontano e opposto colore del primitivo bianco di cui era stata dotata.

La “pichola historia” non racconta nulla dell’Inverno; al riguardo
si può solo dire che, indispettito, non volle più sentir parlare di merli…

“I giorni della merla “I dé dè la Merla”

Tratto da ” Trenta Leggende Bresciane ” di Lino Monchieri

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