Degondo imprigionato nella voragine di Serle!
Degondo era un malfattore ed è entrato nelle leggende bresciane perchè il suo spirito cerca di tornare.
Sulla collina di Paitone, in direzione Serle, si apre una stretta voragine all’interno di una grotta che un tempo doveva essere ben profonda, a giudicare dai decenni che sono occorsi alla gente del luogo di più generazioni, per colmarlo fin quasi all’imboccatura di pietre, sassi e terriccio.
Un gioco diffuso nei tempi andati, quando pastori e carbonai, trovandosi a passare da quelle parti, si divertivano a gettare pietre per sentirne il rimbombo ripercuotersi lungo le strette pareti del budello naturale e per godersi il tonfo finale sul fondo.
Ma non tanto di gioco si trattava, quanto di una precisa istruzione che i vecchi impartivano ai giovani, intimando loro di buttare sassi in quantità, se volevano impedire all’anima disperata di Degondo di tornare tra i mortali.
Chi fosse Degondo?
Perché la sua anima avesse bisogno d’essere sepolta sotto una gran mole di sassi, s’incarica la leggenda di spiegarlo.
Un prete buono e caritatevole da Sopraponte e Fostaga, per i Roccoli di San Filippo, attraverso fitte boscaglie tagliate appena da un semplice sentiero, raggiungeva le contrade della verde conca del Vrenda.
Nel corso dei suoi brevi soggiorni, il prete prendeva dimora nella vecchia chiesetta di San Gaetano, in quel di Gazino.
Per l’estrema povertà del sito, la cappella era senza porte né finestre, sicché giorno e notte stava aperta al prossimo.
Chiunque volesse chiedere aiuto sapeva di poter contare sulla pronta carità del prete, il quale, quando non trovava di poter dare del suo, non faceva mai mancare una parola di conforto capace di lenire anche i casi più disperati.
Il più sciagurato, però, aveva un nome che incuteva paura ai valligiani: Degondo.
Un masnadiero che terrorizzava le contrade, saccheggiava le povere case, minacciava di morte gli abitanti, sordo ad ogni richiamo della coscienza e della morale.
Invano il prete si era offerto in ostaggio per indurre Degondo a risparmiare lutti e sofferenze ai valligiani.
Incurante degli appelli e deciso a non cambiare vita, Degondo riversò contro di lui i segni del suo disprezzo.
Il ribaldo, che non sentiva alcun avvertimento dal suo intimo per i numerosi delitti compiuti, osò presentarsi alla cappella di Gazino, sotto le mentite spoglie di un viandante in cerca di rifugio.
Fu un gesto di pura provocazione poiché Degondo quando lasciò la chiesetta lanciò una minaccia:
«Attento, prete! La prossima volta ti appendo per il collo all’altare
di San Gaetano!».
Poiché alcuni giorni dopo un manipolo di animosi osò tendere un’imboscata a Degondo, costui rese responsabile del fatto il prete e giurò in cuor suo di vendicarsi.
Detto fatto, una notte piombò davanti al prete.
Atterrito dall’improvvisa irruzione del brigante, e gli intimò, pena la vita, di consegnargli il denaro che aveva con sé:
«Non ho quel che chiedi!» si difese con voce flebile il prete.
«So che fai beneficenza – irrise il ribaldo – dunque con che cosa fai contenti i gonzi che ricorrono a te?».
«Con la parola di Dio!».
«Gran conforto al povero, morto di fame!» sghignazzò l’infame.
«Pèntiti, Degondo, davanti a Dio e agli uomini! Fa’ ammenda dei
tuoi delitti…».
«Bando alle chiacchiere, prete: dammi i soldi o te ne pentirai»,
«Di che debbo pentirmi, se non posseggo beni?».
«Tu vuoi provocarmi, prendendomi in giro!» lo minacciò Degondo, stringendolo alla gola fino a strozzarlo.
«Che Dio abbia pietà della tua anima!» mormorò il povero prete, strabuzzando gli occhi.
Degondo non allentò la presa. Infuriato fuori misura, ripetè la richiesta folle, poi davanti alla resistenza del sacerdote, compì l’orribile delitto.
Si liberò del corpo inerte del morto, gettandolo sul focolare, per far conto che fosse rimasto vittima d’una disgrazia.
Qualcuno però scorse una figura allontanarsi veloce nella notte, in direzione Paitone.
Risuonarono colpi di campana a martello, lugubri, prolungati, nel buio della valle.
Armata di forconi e di vanghetti, una volta scoperto il delitto, la gente diede la caccia all’assassino.
Davanti, Degondo col fiato grosso che avvertiva alle calcagna la muta scatenata che gli stava addosso.
Dietro, decisi e impegnati, i valligiani che intendevano chiudere i conti con il ribaldo.
In prossimità di Paitone, Degondo volle giocare i suoi inseguitori, infilandosi all’interno di una grotta, nella quale si trovava un buco che lui solo conosceva.
Ma la fortuna questa volta non lo sostenne: misurando male la profondità del buco, mise un piede in fallo sulla parete scivolosa del cunicolo e con un urlo sovrumano precipitò sul fondo, fin nelle viscere della terra.
Udirono il grido disperato gli inseguitori.
Accorsi nella grotta, all’orlo del buco non esitarono un solo istante. Come un sol uomo cominciarono a gettare sassi, pietre, zolle e terriccio per impedire al brigante di riaffacciarsi sulla valle.
Qualcuno, per ogni buon conto, rimase di guardia, tanto per poter ridare l’allarme in caso di bisogno.
E intanto, per non stare con le mani in mano, continuava a gettare sassi…
Da quel giorno, sepolto ormai nel buio del tempo, chi si trovava a passare di là, non mancava mai di gettare la propria pietra nel buco che era da tutti chiamato col nome di Degondo.